I colombi sono un ricorrente motivo di discussione in molte città, e le amministrazioni, messe di fronte alle richieste di chi li attacca e di chi li difende, spesso finiscono per fare scelte sbagliate. Per cercare discutere dell'oggi, è però bene ricordare come si è arrivati a questa situazione. Fino a pochi decenni fa, tanti colombi si vedevano solo a Venezia, dove erano un'attrazione di Piazza San Marco, come se quella piazza avesse avuto bisogno di ulteriori incentivi per essere riconosciuta e affascinare, e dove, guarda caso, erano attirati proprio dalle granaglie offerte dai turisti. In questo particolare risiede il punto cruciale della crescita delle popolazioni colombofile nelle città: la disponibilità di cibo, sia quello offerto appositamente sia quello trovato nei resti e nei rifiuti.
Le presenze sollevano le polemiche tra chi li difende e chi ne vorrebbe diminuire il numero, alcuni fino ad arrivare alla scomparsa totale; è inevitabile che del fatto siano interessate le amministrazioni pubbliche e tra gli argomenti più gettonati, per sollecitare l'intervento, vi sia la presunta pericolosità per la salute umana. Allora si parla di zoonosi, parola ormai entrata nel linguaggio comune, che è divenuta il grimaldello con il quale si cerca di far passare scelte talvolta molto discutibili, quale l'eutanasia degli animali o, come nel caso del Comune di Torino, di un divieto di alimentare i volatili che risulterebbe quasi totale. Infatti la discussione in città si è riaccesa negli ultimi tempi proprio per la delibera comunale che stabilisce il divieto di alimentazione in un diametro di 250 metri attorno a una serie nutrita di edifici - scuole, ospedali, e molti altri - che di fatto verrebbe a impedire la somministrazione del cibo praticamente in tutta la città, poiché le aree tutelate finirebbero per sovrapporsi e generare una proibizione quasi assoluta.
La delibera vuole trovare giustificazione nel possibile rischio di zoonosi, richiamando l'attenzione in particolare sul microrganismo campylobacter. Vi è una certa novità nell'individuazione del batterio, in quanto, fino a qualche tempo fa, si puntava il dito sulla salmonellosi, prima di accorgersi, illustri professori compresi, che le forme di salmonellosi umana non sono dovute ai colombi, che non hanno un ruolo dimostrabile, bensì alle uova, che trasmettono la malattia se la gallina è ammalata.
La campilobatteriosi, chiamata in causa a Torino, ha più o meno le stesse caratteristiche della salmonellosi, per quanto riguarda la trasmissione della patologia: in tutta Europa l'EFSA, l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, monitora i casi di campilobatteriosi umana, abbastanza diffusa, e prepara piani annuali di controllo della patologia nei... polli. Perché è dalla carne di pollo che la malattia si trasmette alle persone.
E allora i colombi che albergano, secondo una piccola indagine fatta proprio nella nostra città, il campylobacter nel loro intestino, si devono considerare pericolosi o no? La delibera ha deciso per la loro pericolosità e per questo motivo cerca di allontanarli vietando di cibarli, come se i colombi non fossero dotati di ali e potessero spostarsi agevolmente dove vogliono.
I dati epidemiologici, cioè la situazione sanitaria di una popolazione valutata attraverso la presenza o meno di un certo agente infettivo, si prestano ad una interpretazione mirata secondo gli scopi che ci si prefigge. Nel caso in questione è sufficiente utilizzare solo una parte delle conoscenze epidemiologiche per ottenere lo scopo.
Infatti è comprensibile che i colombi possano albergare un germe ubiquitario, che cioè vive in più ospiti animali, ma lo fanno esattamente come altri volatili; in città sono presenti più specie di uccelli, dai corvi ai passeri, anche i gabbiani sul Po, e tutti possono ospitare il campylobacter, però non si monitorano. Soprattutto però non viene detto un aspetto fondamentale: vi è una differenza notevole tra presenza di agente infettante e sviluppo della malattia. Cioè non è detto che la malattia dai colombi passi alle persone. E questo è proprio quello che avviene, se l'EFSA, e non un inguaribile animalista, sostiene che la malattia sia trasmessa con gli alimenti e non tiene in considerazione i colombi, tanto che non prevede piani di controllo nei piccioni.
Se si visita il sito della stessa agenzia, si può constatare che alla voce zoonosi compaia una serie molto lunga di possibili malattie, forme patologiche i cui agenti si possono trovare anche negli animali. Si tratta però solo di ipotesi, cioè indicano che i diversi agenti patogeni, la cui presenza non è detto, però, implichi sicuramente sviluppo di malattia. Ad esempio una ricerca che ha portato alla consultazione di un'ampia bibliografia di pubblicazioni in inglese, italiano, francese, tedesco ed olandese, per un arco di tempo che va dal 1941 al 2008 (Haag-Wackernagel e Moch 2004; Haag-Wackernagel 2006, Magnino et al. 2009) ha rilevato in totale che solo 7 patogeni hanno determinato un totale di 230 episodi accertati di infezione umana, che in 13 casi hanno portato a morte il paziente. In altri termini, anche se ogni morte è importante, in 67 anni, nel mondo, ci sono stati 13 morti dovute alle zoonosi dei colombi. Che l'amministrazione comunale di Torino individui un pericolo sanitario legato ai piccioni pare difficile da documentare sulla base di una piccola ricerca in contrasto con la letteratura scientifica internazionale.
Questo ci porta a considerare quello che è il cosiddetto fattore di rischio. Per ogni forma pericolosa, ad iniziare dalle presenze di sostanze pericolose nei cibi, si calcola il fattore di rischio, ovvero le probabilità di avere conseguenze sulla base della quantità di sostanze nociva con cui si deve venire in contatto. I numeri sopra riportati dimostrano che il fattore di rischio di contagio tra colombi e umani è minimo. Vi è da fare un'altra considerazione: il motivo della scarsa pericolosità dei colombi nei confronti del contagio delle patologie va ricercato nella tipologia della possibile trasmissione: il campylobacter, come la salmonellosi, si trasmette con le feci. Quindi per essere contagiati occorre entrare in contatto diretto, volontariamente o involontariamente, con le feci dei piccioni. Credo che tutti capiscano che neppure i bambini entrano volontariamente e volentieri in contatto con le feci dei colombi; per quanto riguarda l'involontarietà sarebbe buona norma igienica da seguire, sempre, per tutti e per tutte le malattie, compresa l'influenza, lavarsi le mani. E lavare bene i cibi che si consumano crudi. Queste semplici norme bastano per tranquillizzare e rendere tutti sicuri di non essere contagiati.
Se l'amministrazione pensa che i colombi siano troppi in ogni caso, eviti di evocare scenari apocalittici di malattie inesistenti, perché se a Torino ci fosse una situazione diversa da quella europea sarebbe il caso di attivare la stessa EFSA, inconsapevole a tutt'oggi del grave rischio che corriamo in città, e si indirizzi verso azioni di contenimento più utili e meno criticabili.
Sono infatti disponibili sistemi incruenti, che non procurano danno, per contenere il numero dei volatili, da quello di iniziare ad educare a somministrare cibo corretto a base di granaglie, e non pane e simili, in quantità controllata e non a volontà, cosa che stimola la riproduzione; alla sistemazione di torri colombaie per sottrarre le uova e limitare la riproduzione; alla somministrazione del mangime antifecondativo, senza dimenticare le chiusure dei sottotetti e degli anfratti, sia degli edifici pubblici sia di quelli privati, utilizzati per la nidificazione.
Si tratta di iniziative che non incontrano opposizione e che si rivelano molto più utili che stabilire dei diktat, come quello dell'amministrazione comunale di Torino, oltretutto difficile da far rispettare, perché già si immaginano schiere di volenterosi vigili urbani che nelle ore mattutine o serali si aggireranno alla ricerca dei volontari che con il sacchetto in mano cercano di sfamare i volatili. Quanto può durare una simile attività? Quanto costerà alla città?
E quanto tempo ci vorrà perché i volontari con levatacce o rimandando il sonno imparino a evitare i severi controllori? Sono tutte domande alle quali dovrà rispondere l'amministrazione, la quale, però, dovrebbe anche preoccuparsi della qualità dell'aria di Torino in inverno, visto che è un pericolo ben più grave, benché quasi invisibile, delle feci dei colombi.
Enrico Moriconi è medico veterinario dirigente Servizio Sanitario Nazionale. Membro del Comitato Scientifico Nazionale di Legambiente, fondatore dell’Associazione Veterinari per i Diritti Animali. È fondatore del Centro di documentazione Eco-animalista del Piemonte.
12 maggio 2014