Una ricerca statunitense

Una corposa ricerca intitolata “Carne in tavola: l'industria dell'allevamento in America”, Progetto the Pew Charitable Trusts and Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health” dimostra chiaramente che le preoccupazioni per gli allevamenti intensivi come fonte di contagio di malattie per le persone sono fondate.

L’argomento è ritornato di prepotente attualità dopo la diffusione dell’influenza suina e lo studio conferma con autorevolezza il ruolo degli allevamenti intensivi nella creazione di nuovi agenti infettanti e nella loro diffusione sia negli animali sia tra le persone. Rilevante è il fatto che molte delle conclusioni a cui arriva il lavoro sono oggetto da anni di denuncia da parte dei movimenti ambientalisti e animalisti.

Lo studio citato esamina il problema delle malattie infettive e degli allevamenti sotto diversi punti di vista.

Innanzi tutto richiama l’attenzione sul fatto che è esposto alla contaminazione degli agenti infettanti, in modo più frequente e a concentrazioni più alte, chi è direttamente coinvolto nella produzione e che il rischio diminuisce proporzionalmente al contatto, cioè per quanto più o meno tempo si rimane dentro o in prossimità dell’allevamento.

All’esterno la diffusione avviene tramite la contaminazione delle acque reflue e si può estendere alle acque potabili, propagandosi anche a grande distanza dalla sorgente iniziale, come ha mostrato anche la recente trasmissione Report. Se poi gli agenti patogeni sono infettivi per le persone, come nel caso dell’influenza aviare, possono diffondersi nella comunità e persistere durante i processi di lavorazione della carne e contaminare i consumatori di prodotti animali.

 

La ricerca ammette che gli agenti infettanti si possono più facilmente trasmettere dagli allevamenti intensivi alle persone perché il rischio di ammalarsi per gli animali è più alto che altrove, legato alla quantità di animali stabulati insieme in spazi ristretti e alle caratteristiche degli allevamenti dove il cibo e il trattamento sono finalizzati alla crescita rapida, insieme di condizioni che creano le opportunità per i patogeni di trasmissione agli umani.

In particolare, viene detto che tre fattori concorrono ad aumentare il rischio: il prolungato contatto dei lavoratori con gli animali, l’aumentata trasmissibilità dei patogeni nei gruppi di animali e l’accresciuta possibilità di una antibiotico-resistenza ai batteri e ai nuovi agenti infettivi.

Anche lo stress indotto dal costrizione in spazi ridotti aumenta la possibilità di infezione e malattia nella popolazione animale.

 

Anche i sempre più frequenti episodi di nuove forme virali sono messi in relazione con gli allevamenti intensivi. La concentrazione degli animali negli allevamenti intensivi rende possibile la creazione di molte vie di trasmissione degli agenti infettivi negli animali; gli agenti infettanti così possono evolvere diventando più virulenti, anche perché nella popolazione infetta si realizzano numerosi eventi di trasmissione e di co-infezioni, cioè trasmissione tra soggetti diversi oppure virulentazione di agenti infettanti che si mescolano tra di loro. L’allevamento industriale facilita quindi la nascita di nuovi agenti infettivi proprio per il fatto che vi sono molti animali rinchiusi insieme. Anche la presenza di animali con forme asintomatiche può diffondere l’infezione prima che si possano individuare.

Lo studio denuncia che numerose infezioni note possono essere trasmesse tra umani e animali; in effetti su più di 1.400 patogeni umani documentati, circa il 64% sono zoonosici (Woolhouse e Gowtage-Sequeria, 2005; Woolhouse et al.,2001) . Degno di nota il fatto che tali agenti zoonosici sono in relazione proprio con gli allevamenti intensivi e non con la convivenza domestica degli animali compagni o con la prossimità dei sinantropi (come i colombi, eccetera).

 

Per quanto riguarda il problema del consumo di sostanze alimentari animali si dice che i sistemi di allevamento degli allevamenti intensivi possono aumentare significativamente la forme patogene per i consumatori di prodotti animali. Secondo lo studio ne sarebbe interessata l’intera catena produttiva. Infatti ogni area, passaggio, della filiera della produzione di carne bovina, pollame, uova e latticini (pratiche manuali, lavorazioni della carne, trasporto e allevamento) può contribuire alle sindromi zoonosiche e alla contaminazione (Gilchrist et al.,2007).

La ricerca indica due esempi significativi sottolineando come “il recente richiamo serio e di alto profilo riguardante Escherichia Coli O157:H7 e Salmonella enterica serve a ricordare drammaticamente questo rischio” [di trasmissione dagli animali alle persone]. Si citano così dei dati: nel 1999 un rapporto stimava che l’infezione da E. Coli O157:H7 causava approssimativamente 73.000 forme patologiche all’anno con più di 2000 ospedalizzazioni e 60 morti negli Usa (Mead et al., 1999), con costi stimati in 405 milioni di dollari, 370 per i morti, 30 per la cure mediche, e 55 milioni per il calo di produttività (Frenzen et al., 2005).

Si ammette che il concime animale, specialmente dei bovini, possa essere la fonte primaria di questa batteremia, e il consumo di cibo e acqua contaminata dalle deiezioni animali è la maggiore via di infezione umana.

Nell’eziologia della malattia si deve considerare che negli allevamenti intensivi molti animali possono essere debolmente colpiti e passare inosservati e quindi diffondere l’infezione senza che si prendano iniziative di controllo.

Altri complicazioni sono relative al fatto che, in molti casi, è veramente difficile diagnosticare il patogeno: Salmonella enterica ad esempio è nota per colonizzare il tratto intestinale degli uccelli, senza causare sindromi visibili (Suzuki, 1994), oppure, come noto, può infettare le ovaie e trasferire il microrganismo nelle uova.

Anche se la frequenza della contaminazione nelle uova è bassa , circa 1 ogni 20.000 uova, il grande numero di uova prodotte - 65 miliardi negli Usa ogni anno – fa sì che la contaminazione da uova rappresenti una fonte significativa di esposizione umana.

Relativamente a questo punto, il Centers for Disease Control and Prevention (CDC) stima che la decontaminazione da SE nelle uova diminuirebbe di circa 180.000 casi di malattia negli Usa (Schroeder et al., 2005)

 

Un ulteriore elemento negativo degli allevamenti intensivi è l’alimentazione ottimizzata per ridurre il tempo necessario alla crescita per la vendita, aumentare l'efficienza della conversione del cibo e delle proteine, assicurare la sopravvivenza e l'uniformità degli animali. Questo determina l’introduzione nella dieta di molte sostanze chimiche che possono favorire la diffusione di forme patogene perché deprimono le difese immunitarie. Si possono anche utilizzare sostanze direttamente pericolose per la salute umana come derivati e composti arsenicati, utilizzati per aumentare l’appetito degli animali.

 

Infine si punta il dito contro l’uso indiscriminato degli antibiotici, come integratori per indurre una più rapida crescita, che favorisce l’antibiotico resistenza, cioè la non reazione alla somministrazione dei chemioterapici come cura in caso di forme patologiche.

La Infection Disease Society of America ( ISDA) ha dichiarato che le infezioni antibiotico resistenti sono una epidemia negli Usa (Spelberg et al., 2008) mentre la CDC (Centers for Disease Control and Prevention) stima che circa 2 milioni di persone all’anno contraggono infezioni antibiotico resistenti e di queste 90.000 muoiono. Per tali eventi i costi stimati, dieci anni fa, ammontavano tra i 4 e i 5 miliardi di dollari, ma oggi sono certamente più alti visto l'aumentare della sindrome (Harrison et al., 1998).

Come dato per quantificare la rilevanza della questione, si ricorda che la Union of Concerned Scientist (UCD) stima che circa il 70% degli antimicrobici sia usato negli Usa nella produzione animale; le stime di molti Paesi UE, tra cui il nostro, non sono altrettanto note.

 

Le conclusioni del lavoro non lasciano molti dubbi: infatti si afferma che le preoccupazioni relative alle questioni esaminate, resistenza antimicrobica, trasferimento di sindromi dagli animali all'uomo, impatto sulla salute dei lavoratori e delle comunità, sono problematiche degli allevamenti o dell'agricoltura e riguardano anche l’economia industriale che causa significative sconvolgimenti ecologici, i quali sono una della maggiori cause di malattie.

Con un atteggiamento molto calvinista, si dice che microbi sono sempre esistiti e sempre esisteranno ma stanno diventando sempre più veloci ad adattarsi; in questo senso la dimensione e la concentrazione degli allevamenti industriali facilita il ruolo di attacco degli agenti patogeni nei confronti della popolazione umana.

Per tutti questi motivi la Commissione indica al Governo federale e agli industriali di agricoltura e allevamento queste cause di preoccupazione per la salute pubblica, per una politica di riduzione dei rischi che dovrebbe interessare tutti i governi.

 

Queste conclusioni sono in linea con quanto da tempo affermato dai movimenti ambientalisti e animalisti di tutto il mondo. Purtroppo pochi ci ascoltano, specialmente in Italia, dove la puntata della trasmissione Report citata a inizio articolo, ha dimostrato la totale noncuranza delle prescrizioni di legge da parte degli allevatori, dei produttori e somministratori di farmaci – vale a dire i veterinari pubblici e privati – e naturalmente dei politici che coprono loro le spalle.