Se qualcuno volesse comprendere meglio la crisi attuale e il ruolo della finanza nella società mondiale attuale, il libro di Luciano Gallino è un vademecum insostituibile, molto ricco.

Gallino inizia il percorso ricordando l'ingiustizia della società di oggi, riprendendo numeri noti a chi è impegnato su questo fronte: la disuguaglianza di reddito tra il 20 % più benestante e il 20% più povero della popolazione mondiale, è di 90 a 1. Cioè i primi guadagnano 90 volte di più dei secondi. Le venti persone più ricche del mondo possiedono una ricchezza complessiva pari alla “ricchezza” del miliardo di persone più povere. Gli stipendi dei top manager, delle grandi imprese finanziarie e industriali, percepiscono in dodici mesi, tutto compreso, stipendio e benefit e premi vari, quanto un operaio dei paesi sviluppati, italiano, europeo, statunitense, ai prezzi di mercato, potrebbe guadagnare lavorando trai 400 e i 1000 anni. Nel 1960 la proporzione era di 40 anni.

I pilastri del ragionamento sono due. Come è nata e si è sviluppata la finanziarizzazione dell'economia e come questa incide sul sistema produttivo.

La nascita viene fatta risalire alla de-regolazione dei sistemi di controllo delle banche, iniziata ancora con l'amministrazione Clinton, che ha permesso di costruire dei castelli fatti a piramide capovolta: con un piccolo capitale iniziale si potevano rastrellare fondi per milioni di euro, o dollari. Se non vi era una forte richiesta di recupero dei capitali da parte degli investitori il sistema poteva continuare a funzionare. Inoltre le banche sono riuscite a fare denaro con il denaro: i mutui, i prestiti potevano essere “venduti” ad un'altra banca o istituto finanziario che a sua volta poteva emettere dei buoni di credito, trasformando i debiti altrui in crediti. I vari istituti erano di volta in volta venditori e acquirenti, in uno scambio continuo. Alcune cifre testimoniano l'ampiezza raggiunta dal sistema, prima del crollo: il Pil mondiale era stimato nel 2007 a 54 trilioni di dollari – un trilione equivale a mille miliardi-, la capitalizzazione delle borse era di 60 trilioni, ma i fondi scambiati, contando quelli che giravano anche al di fuori dei cambi ufficiali, sfioravano i 684 trilioni, più di dieci volte il Pil mondiale. I derivati in circolazione, cioè appunto i titoli di credito costruiti “vendendo” il debito, arrivavano nel 2008 a 765 trilioni cioè 14 volte il Pil mondiale.

I derivati sono oggetti misteriosi: ognuno può essere a sua volta costituito da fette o parti di altri, e ognuno ha una sua percentuale di rischio, per cui calcolare la vera percentuale di rischio di un solo CDO al quadrato, come si chiamano in sigla quelli così costruiti, è praticamente impossibile. Un documento della Unione delle Banche svizzere dice testualmente che un CDO al quadrato è virtualmente impossibile da analizzare perchè, l'analisi di uno solo, costituito ad esempio da 125 titoli, avrebbe bisogno di informazioni relative a 9375 titoli!

Gallino sfata anche un mito. Durante la crisi molti organi di informazione hanno indicato nei fondi speculativi la causa della crisi ma pochi hanno messo in luce che essi, per la  maggior parte, sono gestiti dalle banche, come accade in Italia dove i principali gestori di tali fondi sono i tre più importanti istituti di credito, Unicredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi di Siena.

Ricorda inoltre che il sistema porta a concentrare grandi quantità di denaro in poche organizzazioni, perchè se i fondi sono moltissimi i principali raccolgono la maggior parte delle sottoscrizioni.

E per quanto riguarda le persone fisiche, coloro che materialmente maneggiano “i soldi degli altri” sono pochi rispetto ai sei miliardi e oltre di abitanti del pianeta, Gallino calcola in circa 500.000 in tutto il pianeta, i top manager finanziari che gestiscono i due terzi dei capitali finanziari investiti.

Tale concentrazione di potere finanziario induce ricadute sull'economia industriale, in quanto lo scopo dichiarato dei gestori finanziari sarà l'aumento della rendita degli strumenti finanziari, a vantaggio loro e di coloro per  i quali  curano gli affari speculativi.

La conseguenze sull'economia produttiva sono state e saranno devastanti se non si vorrà intervenire.

I fondi infatti investono in acquisizioni di parti azioni delle imprese, alle quali chiedono una rendita del 15% , contro una quota di rendita industriale ammessa come normale del 3-5 %; poiché tale rendita è ottenibile solo facendo crescere il valore borsistico, si determina un circolo vizioso in cui chi perde è la parte produttiva. Se è più importante il valore di borsa, il piano industriale verrà imposto dalle richieste dei gestori dei fondi piuttosto che dalla parte industriale: contratti per i dipendenti non a tempo indeterminato, pressioni sui sindacati perchè diano prova di moderazione salariale, non distribuire ai dipendenti premi di produttività e anche la chiusura delle aziende viene determinata non dai risultati imprenditoriali ma dai giochi della finanza: la chiusura di un'azienda, anche produttiva, porta ad un aumento del valore delle azioni, se l' impresa fa parte di una holding, poichè la decisione viene letta come un risparmio dei costi e quindi una maggiore concorrenzialità. Naturalmente aziende che rimangano al di sotto del fatidico 15% fanno fatica a salvare la continuazione dell'attività.

E i fondi pensione, che gestiscono una grandissima fetta degli investimenti, devono difendere i soldi investiti o chi lavora nelle fabbriche? Domanda non inutile, se si pensa che il fondo pensionistico della General Motors gestiva fondi per milioni di persone, ma l'azienda occupava negli Usa meno di 100.000 addetti.  Si dovevano salvare gli interessi dei milioni di investitori o i posti di lavoro di qualche migliaio di persone?

Gallino individua delle soluzioni per ristabilire una direzione sociale alla finanza, innanzi tutto reintrodurre regole di controllo delle attività finanziarie e ristabilire una distinzione tra banche di risparmio e banche d'affari e secondariamente utilizzare le risorse dei fondi, che sono risparmi dei lavoratori e dei cittadini, per opere di pubblica utilità, dalla difesa del territorio al restauro degli edifici pubblici, cole le scuole in Italia, dal momento che i danni causati dal degrado sono ben conosciuti e valutati, o ancora in opere pubbliche di utilità per la comunità come i trasporti, iniziando dalle linee per i pendolari.

L'autore dice anche però che i documenti finora prodotti dai governi dei diversi paesi non indicano la volontà di intraprendere una strada virtuosa nella gestione finanziaria.

 

Dal libro però non viene un invito di speranza, anzi alcune conclusioni sono amare: tutte le politiche per la difesa del lavoro che i politici tentano di fare a livello nazionale potrebbero essere poco più di bende immacolate su piaghe putrefatte perchè non riuscirà ad incidere sugli intrecci che stanno alla base dell'economia attuale. Se le decisioni di chiuder o no una fabbrica solo nelle mani degli investitori/speculatori internazionali, le regole nazionali sono balzelli da evitare anche semplicemente delocalizzando o chiudendo. Ragion per cui le lotte sindacali diventano ardue, con pochi strumenti di pressione in mano ai dipendenti. Ne consegue che le politiche per il lavoro, per le sua difesa, richiedono non solo di preoccuparsi dei diritti dei lavoratori, fondamentali, ma anche di regolamentare la finanza. I lavoratori si difendono più con le leggi finanziarie che con quelle sindacali. Ed è ancora più amaro constatare che questi argomenti non entrano nel dibattito politico. Si andrà alla elezioni di primavera parlando di tutt'altro, mentre capire se vi è davvero una differenza tra i due maggiori partiti su questo punto sarebbe il vero motivo per dimostrare il vero discrimine del voto e contribuendo a far crescere consapevolezza su di una materia riguardante il benessere dei cittadini. Il rischio è che chiunque vinca non si preoccuperà di questi argomenti così importanti e la situazione diventerà sempre più critica economicamente.

E ancora peggio le ultime notizie internazionali dicono che i fondi stanno di nuovo crescendo, nonostante la crisi non sia ancora passata: notizie giornalistiche affermano che le risorse investite in fondi raggiungono adesso la cifra di circa 270 trilioni di dollari, un terzo del loro massimo. La corsa verso la prossima crisi è già ripartita?