di Pier Luigi Cazzola, Emiliana Ballocchi, Enrico Moriconi
Negli ultimi anni ha suscitato preoccupazione pubblica e interesse scientifico la comparsa di alcune nuove malattie, sostenute da mutazioni degli agenti responsabili, non solo virus ma anche batteri. Si è incentivata così la ricerca relativa ai fattori che possono indurre le mutazioni soprattutto con l'obiettivo di valutare se, oltre ai fenomeni noti dell'antibioticoresistenza, anche altri elementi possono agire da determinanti. Lo studio dei fenomeni di mutazione degli agenti infettivi è pressoché coevo alla loro scoperta e nel tempo sono evolute le conoscenze relative.
Fino alla metà del ‘900 ben pochi microbiologi ritenevano applicabili a virus e batteri i concetti della teoria darwiniana della selezione naturale su mutazioni genetiche presenti nell’ambiente. In realtà, fino ai primi decenni del ventesimo secolo si riteneva che strutture viventi così semplici non fossero dotate di un genoma ma che la loro adattabilità funzionale e la stessa evoluzione a ceppi biochimicamente diversi fosse il risultato di modificazioni di equilibri chimici complessi legate ad interazioni tra microrganismo e molecole del substrato ambientale o dello stesso fattore negativo (batteriofago, antibiotico, ecc.).
Questo accadeva nonostante diverse esperienze avessero già dimostrato variazioni nella crescita batterica di colonie irraggiate con raggi X e, nel 1934, fosse stato dimostrato che il numero di cellule batteriche in grado di crescere su un terreno modificato è uguale, sia prima della variazione sia immediatamente dopo; è poi la pressione della selezione naturale che induce l’affermarsi delle cellule più adatte per cui queste gradualmente aumenteranno la loro presenza percentuale fino a prendere il sopravvento sulle altre. Sempre in quegli anni il patologo e immunologo Frank Macfarlane Burnet cercava di dimostrare la preesistenza di batteri mutati, resistenti ai fagi, attraverso valutazioni morfologiche delle colture.
Proprio in quel periodo, gli studi di Ronald Fisher portavano a sostenere la biologia evoluzionistica con la dimostrazione matematica dell’efficacia della selezione naturale nel cambiare la frequenza di varianti genetiche preesistenti nelle popolazioni.
Si deve giungere al 1943, con il “test di fluttuazione” ideato e realizzato da Luria e messo in forma matematica da Delbrück che ne ha definito la metodologia statistica, per avere la dimostrazione della natura indipendente e sostanzialmente casuale delle mutazioni nei procarioti da cui ha avuto inizio alla genetica batterica quantitativa; in sostanza la resistenza ai farmaci dei patogeni è il risultato della selezione di batteri mutanti preesistenti.
Come mai esistono in natura varianti dei batteri, pur trattandosi di organismi che si riproducono per scissione, senza rimescolamento del genoma dando origine, in sostanza, a cloni? Come mai una popolazione selvaggia possiede al suo interno un certo numero di individui con varianti genetiche diverse, presenti con frequenze diverse, pronti ad affermarsi al cambiare delle condizioni di vita sotto la spinta dalla selezione naturale?
Alcuni adattamenti metabolicamente complessi come la resistenza agli antibiotici può passare da cellula a cellula non solo verticalmente, cioè nell’ambito della riproduzione che, soprattutto quando asessuata e tendente a formare popolazioni geneticamente clonate, trasmette di generazione in generazione i geni responsabili della via metabolica che fornisce la resistenza, ma anche orizzontalmente attraverso il trasferimento di “pezzi” di genoma tra individui coesistenti anche di specie diversa.
Tali processi sono stati accuratamente studiati e spiegati per cui si può considerare l’ambiente come un “serbatoio” di geni mutati adatti per condizioni di sopravvivenza precarie, come la vita in presenza di antibiotici, che possono passare da saprofiti a patogeni ed essere poi selezionati nelle infezioni batteriche trattate o negli ospedali giungendo a frequenze rilevanti e molto pericolose.
La motivazione per cui tali geni non si perdono al di fuori dei luoghi in cui vengono usati i principi attivi specifici è legata alla presenza nell’ambiente di antibiotici naturali o molecole simili per cui si ha una debole selezione naturale, anche in assenza di dispersione di farmaci, che garantisce la persistenza della caratteristica.
Tutto questo, però, pone il quesito del “come” sono giunti o si sono formati questi geni mutati nell’ambiente.
In realtà, in natura, avvengono normalmente mutazioni spontanee che derivano, banalizzando, sostanzialmente in due cause:
- A) Errori di trascrizione durante la duplicazione del DNA dovute alla sostituzione di una base con un'altra, errore abbastanza comune durante, con conseguente alterazione puntiforme della tripletta di basi puriniche e pirimidiniche che rappresentano “il mattone” del codice genetico. Questi errori sono normalmente corretti dalla stessa cellula, ma, quando quest’operazione non funziona correttamente, perché non viene eliminata la base errata o è danneggiato anche lo “stampo” rappresentato dalla catena omologa, si origina una mutazione.
- B) Mutazioni indotte da agenti fisici ambientali, quali le radiazioni ionizzanti originate da
radioisotopi naturali e gli stessi raggi cosmici, che, sostanzialmente, producono mutazioni
puntiformi, analoghe a quelle citate e con meccanismi molto simili, portando anch’esse ad errori di
una tripletta o, comunque, interessanti un numero ridotto di basi.
Quindi, la radioattività ambientale, complementarmente alle mutazioni prodotte per errori durante la duplicazione del genoma, è da considerarsi causa comprimaria dell’esistenza di geni mutanti presenti con frequenze anche molto basse ma pronti ad affermarsi nel caso le condizioni lo richiedano.
Quanto detto si applica non solo alle capacità di adattamento a nuove condizioni ambientali, quali la presenza di un principio attivo, ma coinvolge anche la capacità patogena del microrganismo. In sostanza, il susseguirsi di eventi che favoriscono la formazione e l’affermazione di ceppi nuovi nell’ambito della popolazione non è altro che il processo darviniano dell’evoluzione che, step by step, produce una nuova specie; in questo evento evolutivo, quando esso interessa microrganismi già commensali nelle cavità di animali superiori, sono compresi tanto gli adattamenti a nuove condizioni ambientali quanto l’affermarsi di nuove patologie per l’ospite.
In effetti le forme infettive emergenti ad eziologia batterica, quali le infezioni da E. coli O157, nonché la recrudescenza di patologie classiche dovuta alla comparsa di antibiotico-resistenza negli agenti infettanti, fenomeno molto più diffuso di quanto si pensi, non sono altro che la manifestazione fenotipica di geni mutanti formatisi nell’ambiente che molto spesso divergono dal ceppo parentale per poche triplette di basi.
L'ambito naturale deve pertanto essere visto come un attore attivo della possibile trasformazione genetica dei batteri e se è così si dovranno prendere in considerazione anche altri fattori riconosciuti come capaci di intervenire sulla modificazione delle caratteristiche biotiche, sia chimici – e sul ruolo degli antibiotici molto si conosce - sia fisici, ovvero sul ruolo delle radiazioni ionizzanti.
Queste ultime in particolare suscitano attenzione in quanto la radioattività naturale è stata, ed è tuttora, un potentissimo fenomeno di modificazione genetica, universalmente ammesso come tale, in grado di superare le barriere cellulari e di modificarne le caratteristiche, non a caso i raggi gamma sono ritenuti capaci di generare mutagenesi teratogenesi cancerogenesi.
L'argomento riveste un rilevante interesse sociale dal momento che la discussione sulle centrali nucleari è sempre attuale in tutto il mondo e in Italia in particolar modo, sapendo che alle centrali nucleari è permesso scaricare nell'ambiente una quota di emissioni radioattive che però, dati i lunghissimi tempi di decadenza, si sommano nell'ambiente con conseguenze non tutte conosciute.
Pertanto acquisire conoscenze sulle conseguenze anche della bassa radioattività può essere importante.
Per studiare gli effetti delle radiazioni ionizzanti prodotte da radioisotopi di origine antropica, dispersi nell’ambiente in piccole dosi a seguito delle esplosioni nucleari e degli incidenti verificatesi nelle centrali atomiche, è in corso una sperimentazione che prevede la coltura di un ceppo di laboratorio di Eschericchia coli su una sorgente puntiforme esterna di 137Cs, di circa 5600 Bq, e su una di 90Sr, di circa 100 Bq, in paragone ad una coltura di controllo, sviluppata in assenza di radioattività aggiunta, al fine di valutare le modificazioni che avvengono, quindi le mutazioni puntiformi o minime, dei caratteri fenotipici.
In paragone, si può tener conto che in una ricerca che prosegue da oltre 22 anni (R. Lenski e Allievi - Michigan State University),mirata alla valutazione delle mutazioni spontanee di E. coli coltivata normalmente in laboratorio in assenza di qualsiasi irraggiamento o altro mutageno, sono state evidenziate mutazioni con una frequenza di una ogni 2000 – 8000 generazioni.
Dai risultati preliminari si evince che già al 25° passaggio, corrispondente a circa 300 generazioni, colture su terreno solido mostrano la presenza di colonie stellate e sfrangiate per E. coli coltivata in presenza di 137Cs, più rotondeggianti e con bordi poco netti per il microrganismo esposto allo 90Sr mentre in nessun caso, nelle nostre condizioni sperimentali, si sono presentate anomalie di questo tipo per i controlli.
Inoltre è stata rilevato l’aumento della motilità del batterio su strato solido e, sorprendentemente, questo risultato è stato particolarmente evidente nei ceppi ottenuti dall’irraggiamento con 90Sr pur irraggiando la coltura con soli 42,36 Bq rispetto ai 5.600 Bq della sorgente di 137Cs.
In complesso la ricerca sollecita attenzione su una conseguenza delle radiazioni ionizzanti, ovvero la possibilità di influire sulle mutazioni batteriche, ed induce una certa qual preoccupazione dal momento che, sul pianeta, esse sono in continuo aumento.