Sono passati quaranta anni dalla primavera del sessantotto e come tutte le ricorrenze importanti sarà ricordato ma lo sarà sicuramente in una chiave molto problematica.

Nei commenti sicuramente.

Un segnale particolare arriva dal ministro La Russa per il quale i soli critici dei miliari nelle  strade a far servizio d’ordine pubblici sono “i sessantottini”. Una parola che circola da quarant’anni quasi sempre con un significato negativo.

Per chi ha vissuto quegli anni, che non possiamo nasconderlo hanno portato anche delle derive estreme con la nascita dei movimenti passati alla lotta armata, l’analisi mescola l’obiettività con il coinvolgimento perché per molti quel periodo è coinciso con la giovinezza.

Come tutte le situazioni caratterizzate da posizioni molto contrapposte, generano giudizi diversi e con il passare del tempo non è detto che le analisi acquistino maggiore obiettività. Anzi, un pericolo possibile è di un superiore attenzione verso la situazione attuale e minore desiderio di scandagliare quel tempo e quel mondo.

Per coloro che vedono nella globalizzazione e nel consumismo l’unica via per il futuro di questa società, per quanti pensano che l’individualismo egoista e il personalismo siano meglio della solidarietà e della collaborazione, per chi non si confronta con i problemi delle crescente diminuzione delle risorse disponibili e dell’aumento esponenziale dei rifiuti e dell’inquinamento, per tutti costoro il sessantotto è sicuramente un momento negativo nella storia.

Poiché gli ultimi anni sono le negazione degli ideali e delle motivazioni  linfa alle lotte di quegli anni, così facilmente il 68 diventerà simbolo di velleitarismo e di destrutturazione sociale, di disordine e di disorganizzazione della società, privilegiando quella messa in discussione che effettivamente avvenne della società del tempo, tramite la promozione di parole d’ordine portatrici di una diversa idea di società.

Qualsiasi analisi oggettiva deve porsi l’obiettivo di analizzare i valori oggettivamente, sia  negativi sia positivi.

I punti critici sono stati più volte rilevati. In quegli anni, l’atmosfera generale voleva essere di tipo rivoluzionario, di critica estrema ed estremizzante della società contemporanea, con alla base una attesa quasi messianica di un cambiamento epocale molto prossimo che avrebbe travolto la realtà. Ciò portava il movimento a disprezzare l’esistente e a mettere in discussione i rapporti tra le classi sociali specialmente tra le classi subordinate e operaie e quelle dirigenti e imprenditoriali.

Il clima di tensione poteva portare anche a momenti di tensione sociale tra i cittadini e a forme di scontro, ad esempio all’interno delle università dove il movimento è nato, non sempre di livello accettabile, talvolta anche con conseguenze fisiche per alcuni.

Non si può negare che alcuni momenti di asprezza ci siano stati ma non sono tali da portare ad un giudizio affrettatamente negativo.

Anche i momenti di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, molto sottolineati in quegli anni, a distanza di tempo appaiono come la ripetizione di situazioni poi ripetute molte volte e che rappresentano semplicemente l’inevitabile corollario delle manifestazioni molto partecipate e molto accese.

Le violenze di quegli anni andrebbero però almeno analizzate nel contesto di estrema contrapposizione presente tra i giovani di destra e di sinistra che se non giustificano in assoluto le azioni violente però permettono almeno di comprendere il clima ambientale del momento. Così pure i forti contrasti tra dimostranti e forze dell’ordine andrebbero letti non solo come una deviazione da parte dei giovani ma come risposte eccessive, generate a loro volta da atteggiamenti altrettanto violenti da parte delle forze dell’ordine che avevano una impostazione molto autoritaria di gestione della piazza senza voler giustificare a posteriori le violenze ma almeno per inserirle in un contesto più generale. I morti tra i manifestanti, verificatesi in quegli anni, Giorgiana Masi per tutti, significheranno qualcosa o no?

Il punto critico però più alto è stato sicuramente la continuità, denunciata da alcuni , tra il movimento e la successiva fase della lotta armata da parte di alcuni gruppi. Anche in questo caso la continuità non è dimostrata né dimostrabile, se non per un puro fatto temporale. È innegabile che alcuni componenti dei movimenti e alcuni teorici abbiano passato il fossato e dato luogo alla lotta armata ma è altrettanto innegabile che si sia trattato di scelte personali non universali all’interno del movimento.

Si potrà discutere, e ognuno probabilmente rimarrà fermo sulle proprie posizioni, se il livello critico alternativo del movimento potesse di per sé sfociare nella scelta armata o se appunto si è trattato di una estrapolazione non sostenuta dal percorso precedente.

Il significato del sessantotto però va ben oltre le presunte negatività e andrebbe per lo meno analizzato e anche valorizzato.

Innanzi tutto l’analisi potrebbe storicizzare il momento temporale. Dopo la seconda guerra mondiale erano passati poco più di vent’anni un periodo nel quale una intera generazione aveva vissuto senza l’incubo di una guerra sul suolo europeo, forse un periodo così lungo non si era mai visto senza qualche conflitto nel vecchio continente. È stato l’inizio di una lunga fase, tuttora presente, che ha messo l’Europa nelle condizioni degli Stati Uniti ovvero in condizioni di non avere guerre sul proprio suolo. Forse anche questo aveva sollevato molta attenzione sugli avvenimenti internazionali, sulla guerra del Vietnam. Essa era vissuta negli Usa come una vicenda direttamente coinvolgente, con la leva militare con la partecipazione dei giovani, mentre la critica dei giovani europei non nasceva certo da un coinvolgimento diretto. Però l’evento aveva segnato una visione critica condivisa di qua e al di la dell’oceano.

 

La critica della guerra aveva aperto nuovi spiragli e aveva fatto vedere tante contraddizioni in quella società. I giovani precedenti nell’età più caratterizzata da impulsi aspettative e ideali avevano dovuto spenderli per trovare le motivazioni per andare in guerra ma nel 68 di questo non c’era bisogno e diventava forse naturale che le attese di un futuro migliore per se stessi diventassero comuni e obiettivi per tutta una generazione.

 

In tempi di guerra fredda e di contrapposizione dei blocchi poteva sembrare un guadare ad oriente, al “socialismo reale”, ma era qualcosa di diverso perché se naturalmente le attese si coloravano dei colori del socialismo pure la visione era di quelle società era critica e articolata, si condividevano le idee socialiste ma non si credeva che quei paesi le rappresentassero al meglio.

E questo  era motivo di contrasto e di aspro confronto con gli stessi partiti comunisti allora schiavi di una visione bipolare del mondo e, figli del centralismo democratico, poco abituati a metter in discussione le direttive impartite dai dirigenti.

Invece i giovani del sessantotto non avevano padri tutelari, i loro padri erano il che marx lenin mao ho chi min, gridati come slogan nei cortei, ma tutti per la loro valenza simbolica di rappresentare al meglio, si credeva, le  idee del socialismo, al di là degli accadimenti nei regimi da loro diretti.

Molto si può dire un segno dei tempi, di quei tempi, sono anche le canzoni. A parte gli inni da corteo, le canzoni delle manifestazioni e il rispolvera melodie anarchiche o della lotta partigiana, è il mondo della canzonetta a recepire il cambiamento della società ed accanto alle solite storie d’amore compaiono testi che si richiamano con immediatezza alle istanze del momento al temi della giustizia sociale. I cantautori sono stati i primi e quelli ad aver dato più linfa al filone, si pensi a Guccini e a De Andrè, a Gaber, che poi hanno proseguito per tutta la loro carriera il filone dell’impegno sociale, accompagnandolo magari ad altri argomenti. Oggi chi ancora di tanto in tanto lancia segnali in tal senso è uno che nel ’68 seguiva altre strade ma che è quasi come se fosse stato contagiato a  distanza di anni. Adriano Celentano. 

In tema di leggerezze il 68 ha dato inizio alle scritte sulle magliette. Chi a Milano ha pensato di scriver messaggi di critica sulla maglietta, per diventare un cartello vivente, non sapeva certo di dar corso ad un elemento sociale sopravvissuto fino ai giorni nostri, certamente portatore di ben altre comunicazioni.

Anche la stagione dei film ha segnato un momento irripetibile di svecchiamento. Affossato il ciclo del neorealismo italiano, e si ricorda come, quando l’intervento di un giovane Andreotti, sottosegretario alla cultura aveva bollato quelle opere lavori dicendo che non era bene fare vedere le nostre miserie al mondo, con il sessantotto si apre un ciclo di cinema di accusa forte nelle cui radici affondano i lavori critici della società attuale, come l’ultimo lavoro di Calopresti sulla Tyssenkrupp e i film di Moore negli Usa. Significativo di quegli anni la critica al Festival del Cinema di Venezia, ricordata ancora in occasione del festival alla ricorrenza dei quarantenni da allora.

 

Un altro elemento di ben diverso e più pesante valore va segnalato: il rapporto tra studenti e operai. Il movimento fin dalle origini aveva cercato una saldatura con il mondo operaio, talvolta perseguita in maniera un poco velleitaria, cercano di imporre l’interpretazione marxista al mondo di allora. Operazione che era senz’altro ammissibile ma non sempre compresa da larghe parti della popolazione e dei lavoratori. Si ricorda una strofa dell’inno di Lotta Continua “operai con gli studenti” anche se i movimenti sono sicuramente stati più popolati dai giovani studenti che dagli operai, e ad esempio vi era sempre una certa aria di superiore importanza quando nel movimento arriva un “vero”operaio.

 

Con il tempo però se non una vera saldatura tanto auspicata  una contaminazione c’è pur sempre stata e in quell’epoca sono nate le forme di contestazione alla forma sindacale che poi hanno portato ad alcuni cambiamenti.

 

Effettivamente il ’68, anche in chi  prova a sotterrarlo sotto argomenti speciosi, ha segnato un punto di arrivo comunque significativo che ha dato i suoi frutti su tutta la società.

I partiti della sinistra istituzionale, soprattutto il PCI, attaccavano e criticavano aspramente, con parole durissime, i movimenti studenteschi ma poi seppero indubbiamente ricavare il significato di quel momento e da quegli anni nacquero importanti strumenti che contribuirono a svecchiare la società italiana e a farla avvicinare a quella europea.

Anche se spesso il  PCI doveva partecipare per onore di firma per non essere troppo scoperto rispetto alla base e se appunto le iniziative partivano dalla base, i grandi cambiamenti indotti dalla due leggi sul divorzio e sull’aborto fecero mutare il clima italiano, e ancor di più lo fecero le due vittorie sui referendum dove la gerarchia ecclesiastica e con essa il partito di riferimento, la Democrazia Cristiana, conobbero la prima pesantissima sconfitta dopo il dopoguerra segnato da un corollario continuo di vittorie elettorali.

Il cambiamento si vide anche nell’emanazione dello statuto dei lavoratori e nella nascita delle rappresentanze sindacali di base, risposta delle sigle sindacali ufficiali alle proteste della base riguardanti la scarsa partecipazione alle decisioni sindacali e ad una rappresentanza dalla quale non si sentiva ascoltata e alla quale era difficile partecipare.

Anche la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale pubblico, universale e universalistico, del 1978, è figlia di quel periodo e di quella stagione.

Forse sarebbe giusto ricordalo maggiormente in questi anni in cui il liberismo sta fortemente attaccando il sistema sociale vigente, peraltro già molto deteriorato, per tornare ad uno stato che si può definire antecedente al 68.

A quegli anni risalgono le critiche feroci al Codice penale, ancora risalente al famigerato Codice Rocco fascista e alla situazione del servizio militare, alla cui critica hanno lavorato numerose associazioni, Lotta Continua in primis.

 

Il fatto staordinario era il clima irripetibile di quegli anni: per un breve, brevissimo periodo davvero “i ricchi hanno pianto”. Avevano paura, paura anche di mostrare la ricchezza.

Ricordo un “compagno” imprenditore iscritto al Partito comunista, del quale era sostenitore economicamente e così si sgravava la coscienza, che aveva acquistato una Ferrari, mitica allora come ora, anche forse perché quasi inguidabile, dicono: alla prima uscita serale una mano ignota aveva per gioco disegnato una stella a cinque punte sulla carrozzeria. L’auto rimase in autorimessa per un tempo indefinito…  questo è un esempio forte ma davvero nelle classi elevate ci fu un tentennamento, una paura. Un ripensamento certo no.

 

Poi esordirono le “contraddizioni individuali” da accettare. Mentre inizialmente all’interno del movimento vi era attenzione a coniugare gli ideali con la pratica, poco per volta passò il principio che le vicende individuali non erano un fatto politico, a palese violazione dello slogan”il personale è politico” su cui era cresciuto il movimento.

Con l’accettazione delle contraddizioni venne meno una forza cementante e una perdita di identità: adesso si poteva essere borghesi di buona famiglia la sera e rivoluzionari di giorno. E senza pagare nessun pegno, di solidarietà, di aiuto economico ai più deboli. Iniziava a venire meno lo spirito di opposizione e a diffondersi il principio dell’individualismo egoistico.

 

Uno degli epigoni, se così si può dire del movimento, aveva ben compreso questo rischio: il movimento femminista aveva posto al centro della sua prima riflessione proprio il tema della coerenza del comportamento personale individuale e collettivo rispetto alle idee professate. Non dovrebbe essere dubbia la discendenza del femminismo dal sessantotto: solo dalla rivisitazione di tutta una società poteva nascere la critica anche dei rapporti personali e del sessismo maschilista.

 

Nell’insieme però il 68 ha indubbiamente segnato una svolta e non è stato solo perché alcuni partiti politici ne hanno saputo “approfittare” per introdurre variazioni nello stato sociale ma in conseguenza del fatto che il sistema su cui si interveniva era essenzialmente limitato agli stati e il contrasto avveniva a quei livelli.

Certamente la storia non è figlia delle precipitazioni degli avvenimenti, indubbiamente però gli scrolloni facilitano l’accelerazione dei processi e il sessantotto ha dato un bello scrollane alla società mondiale.

 

Solo questi pochi elementi servono però già a comprendere la differenza fondamentale tra il sessantotto e i movimenti altermondialisti nati intorno agli anni 2000.

Forse è pesto per dirlo i movimenti degli ultimi anni hanno prodotto impatti molto minori nella società.

E forse proprio la strutturazione della società ha influito sul diverso esito dei due movimenti.

 

Nel 2000 le forze in gioco erano molto diverse da quelle di trent’anni prima: le aziende si erano ormai globalizzate e la contesa non era più solo a livello nazionale ma internazionale. Le proprietà di una fabbrica locale potevano essere all’altro capo del mondo. Ben prima però si era avuta un’altra trasformazione, la frammentazione delle imprese e quindi della forza lavoro.

Dal sessantotto la borghesia padronale ha di fatto imparato la lezione e ha operato per contrastare la coscienza di classe all’interno delle fabbriche e ha operato una diversificazione delle tipologie produttive di fabbrica proprio al fine di superare la forza che si riusciva a coalizzare in quei luoghi di lavoro.

Le fabbriche sono un’insieme di persone che. impegnate gomito a gomito, devono rispondere a imprenditori diversi, dove prima c’erano migliaia di operai sotto una sola etichetta adesso sono poche migliaia con due o tre tipi di assunzioni diverse.

Se uno sciopero poteva riuscire con migliaia di lavoratori e si potevano riportare in fabbrica compagni licenziati, oggi è difficile riunire poche miglia di persone.

La tragedia della TyseenKrupp, che non deve far dimenticare il continuo doloroso stillicidio delle quotidiane morti sul lavoro, ha riunito circa 15.000 persone a Torino ed era molto tempo che non si contava una tale folla. L’evento però avrebbe richiesto ben altra partecipazione.

Oggi è difficile programmare uno sciopero in certe tipologie di lavoro, proprio perchè vi è una dispersione dei lavoratori, figlia delle correzioni indotte dalla proprietà dopo le proteste degli anni settanta.

La destrutturazione del lavoro ha portato ad un difficoltà per i dipendenti di manifestare il dissenso e la mondializzazione li ha indeboliti. Se il lavoro è facilmente esportabile in ogni parte del mondo e le mansioni non sono specializzate ma facilmente apprendibili, ogni operaio è sotto ricatto della chiusura e dello spostamento della fabbrica, con conseguente licenziamento.

La forza dei grandi cortei operai, degli scioperi generali che facevano cadere i governi è stata depotenziata dalla delocalizzazione delle imprese.

 

Anche l’altro elemento particolare del sessantotto, quelle fusione nella lotta di operai e studenti, quel riconoscere la reciproca necessità di lottare per cambiare la società, anche se  non si deve dimenticare la lezione pasoliniana sull’origine borghese e piccolo borghese di molti dei militanti studenteschi, però il ribollire delle proteste di diverse categorie sociali ma tutte a denunciare lo stato presente e a richiedere dei cambiamenti produceva una situazione generale che chiedeva rispetto e attenzione. E alcuni vedono proprio nella forza delle masse, mai come i quegli anni manifestatasi l’origine della lotta armata, della deriva terroristica, di certo combattuta ma non del tutto negativa per chi voleva por fine a quella stagione. Infatti dalla lotta armata non è nata una società socialista o comunista vecchia o nuova ma lo yuppismo degli anni 80.

 

Le lotte hanno anche suscitato un altro elemento sociale sviluppato per contenere le opposizioni: una crescita dell’impegno governativo per la tutela delle classi più deboli, lavoratori e lavoratrici.

La saldatura, pur con molte distinzioni e incomprensioni, tra studenti e lavoratori non si è più realizzata, neppure nel 2000 e anche se era intervenuto un elemento nuovo, il problema ambientale, non si è realizzata una vera coesione di forze e il movimento altermondialista ha vissuto una fase di grande partecipazione ma senza riuscire a fare un vero blocco sociale. L’unità del movimento era da ricercarsi nelle denuncia dei problemi ma non si riusciva a creare una piattaforma di base propositiva, ovvero non si realizzava un progetto di lotta sociale.

La proposta non era omogenea né totalmente condivisa e non vi era neppure un’idea di base, per quanto possa sembrare sterile il socialismo degli anni settanta.

 

I Social Forum sono stati – e in parte sono ancora - delle fucine di analisi brillanti ma manca il progetto politico che coaguli larga parte dei partecipanti, a dare forza sostanza e coesione.

 

Ascoltando i dibattiti dei Social Forum Mondiali non si poteva non essere colpiti dal riemergere di due temi già al centro delle riflessioni politiche del sessantotto: il rapporto con la politica istituzionale e la controinformazione. Accomunavano i due movimenti le stesse considerazioni.

 

Da quando i movimenti sono diventati attori della scena politica si sono posti il problema del rapporto con le istituzioni e le discussioni che si svolgevano negli anni settanta si sono riproposte quasi negli stessi termini negli anni duemila tra chi privilegiava il tentativo di arrivare ad una rappresentanza istituzionale, sia a livello nazionale sia a livello locale e chi propugnava il principio di tenersene fuori. Quarant’anni non hanno permesso di risolvere il problema e nei Social Forum si sentivano ripetere le argomentazioni consuete di pericolo di non riuscire a modificare le scelte delle amministrazioni a cui si partecipa oppure di contare ancora meno se si è esclusi.

Viene il pensiero che fondamentale non sia la collocazione ma il percorso politico e che questo vero punto focale sia entrato troppo poco nelle analisi. Infatti l’obiettivo, immaginabilmente condiviso da tutti, dovrebbe essere il risultato raggiunto e non il processo. Individuare però un risultato significa indicare i mezzi analitici di verifica dello stesso e le forze su cui si pensa di contare, cercando evidentemente di allargare il più possibile il numero di coloro che supportano il progetto.

Discutere, come si è molto fatto e come si sta facendo, sulla collocazione senza parlare  del progetto è un po’ come mettere “carro davanti ai buoi”. Il dubbio è che ciò si stato fatto e si stia continuando a fare.

 

L’altro punto di elaborazione del sessantotto traghettato quasi uguale nel duemila è il tema informazione-controinformazione.

Uno degli argomenti più discussi all’epoca del sessantotto era il modo con il quale gli organi dell’informazione stampata e radiotelevisiva trattavano gli argomenti della discussione politica badando a rispondere alle richieste degli amministratori più che fornire notizie equilibrate. Nacque in quegli anni la formula di “velinari” definendo così i giornalisti pronti a diffondere appunto gli appunti (detti veline) distribuite dagli uffici stampa senza commenti critici e senza analisi oggettive.

Così evidentemente i cittadini hanno difficoltà a capire le posizioni alternative alle governative ed è più facile contrastarle e ghettizzarle.

Passati quaranta anni si vivono le stesse criticità ed anzi non bastasse la sudditanza psicologica dei giornalisti verso i forti sono state elaborate addirittura delle regole a sancire la disuguaglianza dell’accesso all’informazione. La legge della par condicio dovrebbe secondo il termine garantire la parità dell’accesso all’informazione per tutte le forze politiche invece sancisce esattamente l’opposto. Più si ha rappresentatività istituzionale più si hanno spazi a disposizione, chi è fuori non ha pressoché nessun diritto.

Viene così meno il diritto fondamentale dell’informazione, fornire non solo la conoscenza dei fatti ma anche delle opinioni e delle idee e le idee innovative o nuove non sono certamente subito maggioritarie nella società.

Adesso come allora la difficoltà dei movimenti è proprio la possibilità di far conoscere e circolare le proprie posizioni, arrivare ai cittadini attraverso la comunicazione di massa. Certo si dice che la televisione può essere la circolazione delle idee attraverso la diffusione volontaria ma non vi è paragone tra la facilità di raggiungere milioni di persone dei mezzi di comunicazione di massa e il lavoro di volontariato porta a porta o per strada.

 

Così il circolo si può definire in un certo senso chiuso: il sessantotto ha rappresentato un movimento di massa durato alcuni anni capace di indurre dei mutamenti ma che non ha potuto raggiungere i veri obiettivi di cambiamento sociale auspicati. Così quarant’anni dopo il movimento altermondialista, non ancora concluso, ha dovuto fare i conti quasi con gli stessi problemi di quello precedente e come quello non ha raggiunto gli obiettivi che si poneva.

 

La storia però non è finita, a differenza di quanto sostiene qualche storico, e la lunghissima lotta degli uomini contro l’ingiustizia non è certo finita e molti potranno ancora pensare che movimenti come quello del sessantotto sono solo una tappa dell’impegno delle donne e degli uomini per una maggiore giustizia