In quest’estate arida e secca, dove il caldo e la mancanza dell’acqua la fanno da padroni,  nascono le proposte più strane e si può dire pericolose. Così da più parti si pensa di aver trovato l’uovo di Colombo contro la siccità: l’acqua scende dai ghiacciai e corre nei fiumi verso il mare, quindi per affrontare la carenza la soluzione è semplice: basta costruire degli invasi in montagna per trattenere l’acqua e poterla così utilizzare quando serve. Il ragionamento è tanto semplice da sembrare inattaccabile. Peccato che non può funzionare da un punto di vista ambientale.

Naturalmente è bene non dimenticare che stiamo vivendo quella che sembra l’estate più calda degli ultimi due secoli, causata -come viene ormai ammesso da tutti- dall’effetto serra. Questa consapevolezza non genera però decisioni conseguenti se, oltre al riscaldamento ed ai trasporti, anche la produzione di elettricità dipende ancora per la maggioranza da derivati dal petrolio, che, come si sa, sono alla base delle emissioni climalteranti,  causa di questo aumento della temperatura.

Ciò ricordato vediamo quali sono i motivi che rendono non utile la costruzione di invasi.

Innanzi tutto non si può dimenticare che le nostre valli sono oggetto di turismo, talora più intenso talora meno, ma che rappresenta in ogni caso un notevole aiuto per le zone di montagna e la costruzione degli invasi, inondando parte delle valli, certo le rende diverse, le trasforma, e non è detto che questo rappresenti una modificazione gradita dai fruitori turistici.

L’invasamento delle acque poi determina inevitabilmente una delocalizzazione di parte delle popolazioni, poiché il crescere delle acque impone la necessità di abbandonare gli abitati interessati.

Se poi si pensa di realizzare questi invasi nelle parti alte delle valli diventa oltremodo delicata la scelta della collocazione in quanto la fragilità del territorio montano offre la possibilità di frane che possono danneggiare l’infrastruttura oppure, precipitando nell’invaso, causare onde anomale, sicuramente meno grandi di quelle tragiche del Vaiont, ma non per questo meno pericolose.

Un altro elemento da valutare è il fatto che gli invasi rendono meno di quello che si può pensare. Tutti gli studi tecnici sull’argomento dichiarano che l’evaporazione sottrae almeno il 40 per cento dell’acqua presente e quindi anche questa minor resa va tenuta in conto nel calcolo sull’utilità delle opere.

Facendo tutte le proiezioni anche considerando la minor resa molte opere proposte diventano di fatto di dubbia utilità, persino dal solo punto di vista economico.

Un ulteriore elemento sono i fattori tecnici intrinseci, verificabili sui testi di idrologia a partire da quella basilare di Giuliano Cannat, relativi al fatto che gli invasi danno la certezza del funzionamento sono nel momento in cui si incomincia a farvi defluire l’acqua, in quanto è altrettanto noto che vi possono essere delle vie di fuga sotterranee poste, ad esempio, ad altezze raggiungibili solo quando il livello cresce.  Attraverso tali vie il fluido defluisce e rende difficile, se non impossibile, il riempimento del serbatoio. Sempre a livello di idrologia si deve ricordare che tutti i bacini si insabbiano ad una velocità da due a quattro volte superiore a quella prevista in fase di progettazione.

Per tutto il periodo in cui si effettuerà il riempimento non ci sarà scorrimento di acqua, se non in minima parte.  Questa privazione per tutti in che modo verrà calcolata in fase di progetto?

Quando l’invaso si riempie la quantità di acqua raccolta in un ambiente dove prima il deflusso avveniva in maniera naturale contribuisce al cambiamento del microclima, con conseguenze non sempre prevedibili in anticipo, così eventuali ricadute negative si constateranno solo nel momento in cui l’accumulo inizierà a originare i suoi effetti.

Alla base di tutto questo vi è una concezione assolutamente sbagliata dell’acqua, che viene vista come un oggetto da disciplinare, da regolare, come se fosse un oggetto statico.

L’acqua che scorre non è acqua sprecata, come spesso si sente dire, ma la vera vita del fiume.

Per questo è assolutamente errato il ragionamento che sta alla base del concetto del deflusso minimo vitale, cioè la pretesa di salvare la vita fluviale semplicemente garantendo un percentuale modestissima, pari al dieci per cento della portata globale annuale.

Così facendo si dimentica che in molti periodi, come quelli estivi, l’acqua che scorre nel fiume è meno dell’uno per cento di quella vi scorrerebbe naturalmente, anche se la norma viene rispettata appieno, cosa che, come purtroppo si sa, non avviene quasi mai. Vedere per credere cosa succede a valle delle dighe attuali.

Questa concezione imprenditoriale dell’acqua è quella stessa che sostiene un altro effetto disastroso, la diminuzione del trasporto solido del fiume.

Gli sbarramenti lasciano passare solo la fase liquida, anche se quelli più recenti cercano di garantire un certo rilascio della parte più fine. In realtà le dighe diminuiscono fortemente il trasporto dei solidi. Certamente sotto questo punto di vista sono più impattanti quelle più vicine alla foce, ma comunque anche quelle a monte fanno sentire la loro influenza negativa e oltretutto aumentano l’erosione a valle, con problemi ad esempio per la stabilità dei ponti. E diminuzione del trasporto solido significa direttamente problemi sulle coste in quanto le spiagge vivono sull’equilibrio dinamico costituito dall’apporto della sabbia da parte dei fiumi e la sua asportazione da parte del mare. Chiaramente diminuire l’apporto di materiale vuol dire mettere in crisi le spiagge, esattamente quello che succede e che viene denunciato da più parti.

Se tutto ciò non è sufficiente vi è poi il motivo principale, l’uso per cui servirebbe tutta l’acqua che si vuole accumulare: l’agricoltura e non altro.

L’acqua, in generale,  viene utilizzata per il 10 per cento per usi personali, per il 20 per l’industria e per il 70 per cento per l’agricoltura. Quindi gli invasi servono essenzialmente per uso irriguo.

E come la usa, questa acqua, l’agricoltura?   Soprattutto per le coltivazioni di mais, principale monocoltura italiana, 1 milione e 300mila ettari coltivati, che serve quasi esclusivamente, oltre il 98 per cento, per la preparazione di mangimi per animali. Cioè faremmo invasi, con tutti gli aspetti negativi detti precedentemente, solo per produrre mais per gli animali.

Non è vera un’altra affermazione che si sente ripetere ovvero che l’acqua dopo l’irrigazione ritorna ai fiumi in quanto le piante la consumano con l’evapotraspirazione, cioè con il loro metabolismo.

E non è neppure vero che un invaso può avere un utilizzo plurimo, cioè servire contemporaneamente per uso irriguo, uso idroelettrico ed anche per trattenere l’acqua durante le piene.  Questi usi sono infatti conflittuali fra loro, basta pensare che, per la produzione di energia elettrica, l’acqua va accumulata nel bacino fino al momento di massima richiesta di elettricità, e non in funzione dei fabbisogni agricoli,  e che, per poter trattenere l’acqua delle piene, il bacino andrebbe mantenuto costantemente vuoto per tutto l’anno!

In agricoltura non è solo il mais un problema, anche se è il più idrovoro, richiedendo 250 chili di acqua per un chilo di granella, e trattandosi di una pianta non originaria delle nostre latitudini ha bisogno di essere irrorata proprio in quei mesi estivi in cui la pioggia è, nei nostri climi, più scarsa; molte delle attuali coltivazioni sono passate da varietà meno esose di acqua a quelle che hanno più sete, come i nuovi tipi di mele e di pesche e i kiwi di recente introduzione.

In conclusione non serve realizzare invasi in montagna per sostenere l’agricoltura più dispendiosa, dovendo obbligatoriamente ricordare che tutta l’agricoltura è sostenuta e in particolare la cerealicoltura. Le vere soluzioni sono indirizzare l’agricoltura, con sostegni pubblici, verso coltivazioni che abbisognano di minor irrigazione, è sufficiente pensare che il grano e la canapa, ad esempio, richiedono meno acqua e comunque in un periodo più portato alle precipitazioni. Sarebbe necessario che per una volta si analizzassero, prima di assumere le decisioni, le situazioni complessivamente, come vorrebbe l’approccio ecologico, evitando di agire sull’onda di spinte emotive o peggio di interessi economici di scarso respiro. Senza possibilmente farsi influenzare dal fatto che le dighe richiedono investimenti miliardari che, in epoca di rifiorente tangentismo, sono un miraggio oltremodo allettante per quanti mirano a pure speculazioni finanziarie.