I cittadini, aggrediti da quantità esorbitanti di cibi nei supermercati, si accorgono della crisi dell'agricoltura, e dell'allevamento, solo quando aumentano i prezzi; aumento che però è il risultato della crisi che avviene a monte, nei campi e nelle stalle. La crisi, soprattutto delle piccole e medie aziende,  è dimostrata dai dati: negli ultimi 15 anni le aziende agricole sono diminuite del 33 % cioè un terzo ha chiuso, e così è aumentata la superficie media coltivata per azienda che è passata da 5,5 ettari in quegli anni agli 7,5/8 ettari attuali. Per quanto riguarda l'allevamento, dal 2008 si sono allevati 2 milioni di animali in meno, 250.000 bovini su un totale di 8 milioni,  800.000 maiali (su un totale di 9 milioni), e poi pecore e capre; secondo i dati forniti dalla Coldiretti sono a rischio di estinzione 130 razze autoctone, 38 di pecore, 24 di bovini, 22 di capre, 19 di cavalli, 10 di maiali, 10 di polli e 7 di asini. Economicamente, ricorda sempre l'organizzazione, la zootecnia vale 17,3 miliardi di euro e rappresenta il 35% dell'intera agricoltura, occupando circa 800 mila persone.

Il processo è in atto da tempo; le piccole proprietà non reggono tra prezzi calanti dei prodotti agricoli e spese crescenti. In zootecnia poi si sta diffondendo sempre più la soccida, con la quale i proprietari delle stalle accudiscono animali di proprietà di altri, soprattutto industrie mangimistiche che sfruttano economie di scala per guadagnare. Così avviene per il pollame, dove  più dell'80% degli animali è di proprietà di pochi marchi operanti a livello nazionale (Aia, Amadori, tanto per intenderci) e per i suini. La diminuzione della produzione nazionale non è colta dai consumatori, infatti si importa il 42% del latte, il 40 % della carne di maiale e bovina, il 30% di quella di pecore e capre e il 10% della carne coniglio. (Dati Coldiretti)

Purtroppo si deve rilevare come il comparto produttivo, tutto preso, forse inevitabilmente, a salvaguardia della sua redditività, non riesce ad analizzare complessivamente il problema e si attesta su una difesa, impossibile, del made in Italy, cercando di ottenere garanzie sulle produzioni autoctone, senza considerare che è il modello che non funziona. E il Made in Italy non è solo rose e fiori: il nostro paese importa per 41 miliardi di materia prima e l'export equivale solo a 33,4 miliardi, dati di Altragricoltura[1]. Certo se non esportassimo forse sarebbe peggio, o non si sa.

Il modello è stato costruito, con il beneplacito delle amministrazioni politiche internazionali, per favorire le multinazionali che fanno diminuire i prezzi di acquisto dei vegetali e dei prodotti animali, giocando sul fatto che possono acquistare la merce dove più gli conviene, costringendo agricoltori e allevatori ad accettare il prezzo proposto. Così, se negli anni ottanta il valore aggiunto dei prodotti agricoli si divideva in tre parti quasi uguali, un terzo ciascuno ad agricoltura, trasformazione e commercializzazione, oggi due terzi vanno alla commercializzazione e il terzo rimanente se lo dividono trasformazione e agricoltura, per la quale rimane solo un risicato 17% del terzo, pressapoco il 6% dell'intero valore (Altragricoltura).

Il sistema è pressochè inevitabile finchè non cambiano gli stili di vita e non si insegna a chi acquista a guardare non solo il “cosa” – da dove proviene cioè – ma “quanto” si acquista. Le multinazionali dell'agroindustria, e le catene dei supermercati, non sono affatto preoccupate delle iniziative per la tutela delle produzioni locali, sono molto più attente a incentivare le quantità, e per farlo sono disposte a ribassare i prezzi fin dove è possibile.

I dati della Coldiretti dicono che tre confezioni di latte a lunga conservazione su quattro sono straniere, poiché il consumo è di 2,05 milioni di tonnellate contro una produzione di mezzo milione; la metà delle mozzarelle sono fatte con latte o cagliate straniere. E il parmigiano non è da meno. Oltre alla cagliate si importano polvere di latte, caseine e caseinati, che diventano formaggi italiani.   Si vende una quantità di mozzarella di bufala doppia di quella che si può produrre con il latte degli animali bufale allevati in Italia (Altragricoltura). Produciamo 24,5 milioni di cosce di maiale ma ne importiamo 57 milioni dall’estero che diventano prosciutti italiani, cioè due prosciutti su tre provengono da maiali allevati altrove. Molti sono venduti come prodotto nazionale poiché basta una bolla che faccia risultare il maiale allevato da 60 giorni in Italia per acquisire l'italianità.

Importiamo olive che diventano olio toscano, asparagi dalla Nigeria (per via area); 105 milioni di tonnellate di conserva di pomodoro dagli Usa, fagiolini e carciofi dal delta del Nilo e altrove (Altragricoltura).

Se acquistassimo solo Made in Italy, diminuirebbe la disponibilità e i prezzi salirebbero alle stelle; si può ipotizzare un rialzo del 60-70% e, con stipendi e pensioni che rimangono fermi, ci sarebbe un brusco calo delle possibilità di acquisto per milioni di persone.

Usa e Europa hanno costruito un sistema che colonizza il mondo intero: abbiamo convinto, o costretto, i paesi extra europei ad abbandonare le produzioni con cui si sfamavano per passare a monocolture di cibi da esportare. Però asparagi e fagiolini, ad esempio, sono pagati al campo con prezzi da fame e i piccoli proprietari, che prima riuscivano a sostenersi, adesso non hanno risorse a sufficienza per sfamarsi; sono così costretti a vendere le terre, spesso proprio alle multinazionali.

Il sistema è sostenuto dalle sovvenzioni che l'agricoltura europea e statunitense ricevono dai governi; quasi il 50 per cento dei contributi europei va all'agrozootecnia. In questo modo si è realizzato il capolavoro: la battaglia dei prezzi espelle piccoli agricoltori ed allevatori in Europa e Usa, ma anche nei paesi extraeuropei; il guadagno è  solo per le multinazionali della chimica e del commercio.

Purtroppo, anche professori più o meno illustri sostengono il sistema attuale. Sulla Stampa del 2 febbraio15, Roberto Defez, professore del Cnr, si lancia in una attacco contro il divieto di coltivare sementi Ogm in Europa affermando che così si perde l'opportunità di competere con gli altri paesi che tali coltivazioni permettono. E' vero che si consumano circa 10mila tonnellate di soia transgenica al giorno, non è vero però che le coltivazioni gioverebbero agli agricoltori. Il Professore forse non sa, tutto preso nella sua posizione pro Ogm, che i semi transgenici significano un ulteriore balzo in avanti delle multinazionali della chimica che possono permettersi di brevettare i semi e rivenderli molto più cari. La deriva di cui si è parlato prima, dei piccoli e medi contadini che devono lasciare le terre ad altri, è incentivata anche dai prodotti transgenici: chi usa questi semi guadagna sempre meno, invece di ottenere di più.  E ciò accadrebbe anche in Europa come già è accaduto nei paesi extraeuropei. Si fa leva sulla poca conoscenza dei cittadini per far balenare scenari di più cibo a minor costo per difendere un sistema che significa guadagno solo per le multinazionali e miseria per milioni di persone in tutto il mondo.

Se non si realizza un cambiamento di rotta, non c'è alternativa e l'evoluzione dell'agrozootecnia continuerà nella direzione attuale, con l'aumento delle importazioni, la crisi dei produttori nazionali e la concentrazione delle proprietà. La soluzione non può essere una difesa “dell'italianità” senza ripensare allo stile di vita, in altre parole si deve diminuire il consumo e lo spreco: se si acquista meno cibo lo si può pagare anche un poco di più e ricompensare meglio i primi produttori.

E' anche evidente che occorre la volontà politica del cambiamento, non bastano le scelte individuali. La decisione politica deve obbligatoriamente prevedere la revisione delle modalità di sostegno per  favorire le piccole  e medie aziende e le produzioni locali. Poiché però, da quando è nato il commercio, migliaia di anni fa, l'intermediario ha sempre guadagnato più del produttore, si deve lavorare per costruire reti di distribuzione scollegate dalla grande distribuzione per avvicinare il primo produttore al consumatore e garantire più guadagno al primo e costi contenuti al secondo. E' l'unica strada percorribile, anche se difficile, soprattutto perché occorre la collaborazione e il coinvolgimento dei cittadini i quali devono capire che l'acquisto e la preparazione del cibo è  una decisione di economia domestica che diventa una scelta politica nel campo dell'agrozootecnia.

 

[1]Tutti i dati di Altragricoltura sono di Giovanni Fabbris, Convegno Campagna Stop TTIp Torino, 31.01.15