Esistono problemi che diventano noti a livello mondiale solo se vengono rilanciati dai mezzi di comunicazione in quanto colpiscono in maniera molto evidente o quando si collegano a situazioni particolari. Forse il clamore che l’influenza dei polli, aviare in termini tecnici, sta suscitando non sarebbe stato tale senza il precedente di mucca pazza e senza la paura, che sembra diffusa ormai su scala mondiale, che virus e batteri possano diventare armi di distruzione di massa. Qualunque sia il movente è chiaro che da parecchio tempo l’influenza aviare ha conquistato l’attenzione della carta stampata e dei mezzi televisivi di comunicazione. Poco importa che gli epidemiologi siano dell’idea che la famosa “Spagnola” capace di uccidere il 2 per cento della popolazione dell’epoca, ovvero circa 40/50 milioni di persone in tutto il mondo, fosse già un esempio di mutazione virale per cui l’agente infettante si sarebbe trasformato ed adattato all’uomo provocando tutti quei disastri.

Infatti sulla base delle conoscenze scientifiche sappiamo già da tempo che questo può avvenire ed in effetti avviene.

I virus influenzali dei volatili sono del tipo Orthomixovirus di cui si conoscono moltissimi sottotipi che, come si legge anche sui giornali quando si parla di queste malattie, sono individuati sulla base delle due lettere H e N e una serie di numeri per ogni lettera, 1,2 3, ecc.

I testi ricordano che il maggior serbatoio di virus influenzali è rappresentato dei volatili; il loro spettro d’ospite è ampio, pollo, tacchino, fagiano, anatra, oca, gallina, faraona, quaglia, pernice, ma l’infezione è più frequente nei migratori. Questi ultimi sono sovente colpiti da infezioni miste, sostenute da sottotipi virali che presentano varie combinazioni antigeniche che favoriscono la ricombinazione con possibile comparsa di virus “nuovi” potenzialmente trasmissibili ai volatili domestici (salto d’ospite). Per questo motivo la diffusione su scala mondiale può essere dovuta agli uccelli migratori, mentre la frequenza è condizionata da vari fattori: contatto volatili domestici con selvatici nelle zone ad intensa produzione avicola, presenza di specchi d’acqua che possono costituire luogo di raduno per gli acquatici, fattori climatici stagionali.

L’allevamento all’aperto o in ricoveri nei quali i selvatici abbiano accesso può ugualmente facilitare il contagio.

Per quanto concerne il cambiamento delle caratteristiche del virus i testi ricordano che un evento alternativo potrebbe verificarsi attraverso il riassortimento genico, tenuto conto che gli Orthomyxovirus dei volatili possono infettare i mammiferi consentendo la ricombinazione con potenziale comparsa di sottotipi “nuovi” responsabili delle più gravi pandemie di influenza umana. L’evento della ricombinazione è possibile per la particolare natura dell’RNA , dalla quale deriva una certa eterogenicità di stipiti virali che, esposti alla pressione immunitaria, si trasformano per alcuni caratteri biologici dando luogo a varianti diverse per specificità di ospite, struttura antigene e potere patogeno.

Il fenomeno della ricombinazione è riproducibile in vitro per cui non è da escludere che i virus responsabili delle gravi pandemie influenzali umane contengano geni NA e HA derivati da virus dei volatili. È questo il caso del virus responsabile della pandemia del 1968 che, in base alla struttura del gene HA, potrebbe essere derivato da uno stipite circolante fra le anatre. Sono inoltre disponibili indicazioni secondo le quali i virus H1N1 diffusi tra suini, tacchini e anatre possono seguire il circuito suino-volatili-uomo, consolidando l’ipotesi del rischio sanitario derivante dalla presenza di virus influenzali fra gli animali domestici e selvatici.

 

Sulla base di queste conoscenze, note già da tempo, è chiaro che il possibile contagio da animale a uomo, non è una novità. Evidentemente la considerazione che ha avuto è legata al precedente allarme mondiale per la diffusione della Sars.

Infatti l’indagine epidemiologica indica che i virus responsabili delle pandemie di influenza umana verificatesi nel 1918, 1968 e 1975 avevano gli antigeni H1, H2,H mentre, sempre negli anni predetti, erano presenti stipiti contenenti tutti gli altri antigeni H noti, il che fa ritenere che i sottotipi che li contengono non siano costantemente patogeni per l’uomo. E la pandemia del 1968 ha fatto mezzo milione di vittime.

In questo tipo di analisi non si può trascurare il fatto che la stessa Sars potrebbe derivare dalla mutazione genetica di un virus di origine animale o umana. Su questo punto non abbiamo ancora riscontri scientifici.

Nell’analizzare la vicenda dell’influenza aviare tuttora in fase attiva nei paesi orientali, dove pare siano già circa 30 morti tra la popolazione, sarebbe opportuno riflettere su tutti gli elementi collegati a questa forma patologica.

La prima considerazione, è sicuramente quella che non si tratta di una novità assoluta bensì di un evento che rientra nelle possibilità che i virus influenzali aviari hanno, e già noto da tempo. Da molto tempo si sapeva che l’influenza è come una moda che arriva ogni anno in inverno in forma nuova. Dall’oriente i virus sono trasportati con gli uccelli migratori, con i venti o con gli aerei e i passeggeri, in occidente.

Da cosa deriva tutto questo allarme, se si tratta tutto sommato di eventi non così straordinari? Il sospetto è che ci sia una manovra, ben articolata, per alzare il livello di attenzione dei cittadini, già sottoposti alle tensioni dovute alla guerra e al terrorismo internazionale.

Il numero dei morti, fortunatamente, anche se molto enfatizzato dall’informazione, rimane in un ordine di grandezza limitato, ben al di sotto, ad esempio, di quelli che si sono già avuti per la mucca pazza. La prima considerazione allora è quella relativa all’incidenza degli interessi economici delle multinazionali che vivono come un regalo insperato una malattia curabile solo attraverso la vaccinazione. Tenere vivo il problema indubbiamente “aiuta” ad incrementare le vendite dei vaccini. E vi è da credere che nelle campagne di vaccinazione molte aziende approfitteranno di questo supposto grave pericolo per svuotare le scorte di vaccini che non sono specifici. Infatti, visto che si denuncia la capacità del virus di mutare, è chiaro che nel corso di una epidemia un solo tipo di vaccino può non essere sufficiente per tutto il periodo. E ancora di meno servirà un vaccino preparato molto tempo prima.

I pronto soccorso strapieni di persone preoccupate non possono che far piacere alle industrie farmaceutiche.

Nell’insieme questa forma patologica agisce da leva pubblicitaria diretta per quella visione della salute da difendersi tramite la cura e la terapia più che con la prevenzione, solo a parole cara alle multinazionali del farmaco. Perché l’altro aspetto, decisamente meno sottolineato, è il problema determinato da un tipo di società e sistemi di vita che non riescono a migliorare le condizioni ambientali e meno ancora a favorire una vera prevenzione. Non solo per gli esseri umani ma anche per gli animali..

Su gli animali vi è da ricordare come nel tempo le modificazioni virali note e pericolose siano state molto limitate nel numero, anche se in alcuni casi molto gravi. Negli ultimi anni, però, questi eventi sono stati più frequenti e il motivo va ricercato, a nostro avviso, nei sistemi di allevamento. Negli ultimi tempi in tutto il mondo si è avuta una spinta esasperata nella produzione avicola che ha visto moltiplicare il numero di animali allevati. Ebbene le possibilità di mutare del virus sono incrementate proprio da questa condizione. Di fronte ad un grande numero di individui che hanno condizioni antigeniche diverse, dovute anche alla possibile vaccinazione effettuata sugli animali che ne aumenta le resistenze, il virus è più facilmente indotto a mutare il proprio patrimonio genetico e cioè trasformare i propri caratteri per quanto riguarda le specificità dell’ospite, cioè la possibilità di colpire specie diverse, di struttura antigene, cioè l’attitudine a suscitare le risposte immunitarie degli organismi colpiti e il potere patogeno, cioè la capacità di dare forme morbose diverse più o meno gravi. Insomma il numero di animali allevati negli stessi spazi aumenta la capacità dei virus di modificarsi. E questo è il dato importante che rende più probabile e sempre più frequente il salto di specie dei virus e le forme di trasmissione dagli animali all’uomo.

È un fatto che ormai viene analizzato su scala mondiale tanto che Gary Smith, della Scuola di Medicina veterinaria della Pennsylvania University, avverte che l’influenza aviare e altre malattie continueranno a diffondersi perché “nella zootecnia di oggi il movimento di animali è maggiore rispetto al passato… Il problema è che l’allevamento industriale opera a livello globale, nazionale e regionale”. (State of the World, 2004).

 

Un altro fattore da considerare è l’interesse per la diffusione degli allevamenti intensivi. È noto che nei paesi orientali sono ancora diffusi allevamenti di tipo tradizionale come sono normalmente definiti, anche se il numero degli animali allevati è stato molto incrementato (i volatili allevati sono passati da 12 miliardi nel 1996 ad oltre 20 miliardi nel 2003). Nessuno ha sottolineato a sufficienza il fatto che sia il numero, più che la tipologia di allevamento, alla base della diffusione di queste epidemie. Il grande numero di individui ammassati in queste strutture, da un lato facilita la trasmissione di ogni sorta di virus generando negli animali uno stato di stress continuo, legato alle condizioni innaturali di vita, ai ritmi produttivi cui sono sottoposti, dall’altro favorisce il commercio e la somministrazione di antibiotici a scopo “preventivo” che caratterizzano proprio questo tipo di allevamento. Questo spiega in parte perché anche questa occasione, come è già avvenuto in Thailandia, sia stata sfruttata per l’incrementare la realizzazione di allevamenti di tipo industriale: si offre l’illusione di una maggior sicurezza da future epidemie, mentre si creano condizioni di ancor maggiore pericolo. Evidentemente questo tipo di allevamenti risponde a diversi interessi.

Insomma se davvero si volesse operare in senso preventivo occorrerebbe ripensare i sistemi di allevamento industrializzato e l’affollamento delle strutture, seguire cioè un indirizzo diametralmente opposto a quello attuale.

Oltre alle conseguenze sul piano della salute umana, per inciso, vogliamo ricordare come queste epidemie siano una vera tragedia anche per gli animali, direttamente o indirettamente coinvolti. In primo luogo vi sono le condizioni di vita negli allevamenti che come abbiamo visto costituiscono una fonte di stress e sofferenza. L’esplodere dell’epidemia poi rappresenta l’altro grande momento di sofferenza, perché nessuno di questi animali “da reddito” viene curato. Come hanno mostrato eloquenti immagini televisive, vengono piuttosto ammassati in enormi buche scavate nel terreno e coperti di terra mediante l’impiego delle ruspe, in alcuni casi, addirittura si è preferito, per ragioni di sicurezza di chi operava nei pressi, dare fuoco agli allevamenti che contenevano animali vivi, in parte malati in parte sani. Gli animali, “quarto mondo” come li ha definiti il filosofo Gianni Vattimo, sono coloro che pagano sempre il prezzo più alto, tra l’indifferenza di tutti.

 

Infine vi è il problema delle conseguenze umane. Qualche ricercatore ha sottolineato come le aree urbane degradate sempre più diffuse nei sobborghi delle città nei paesi in via di sviluppo costituiscono un potenziale serbatoio nel quale un virus mortale avrebbe conseguenze disastrose. Anche nel 1915-18 la Spagnola fece il numero maggiore di morti proprio in quegli ambiti. Pochi riflettono sul fatto che la nostra società opulenta aumenta le povertà invece di ridurle, ne sono una dimostrazione i milioni di individui costretti a vivere in condizioni di estrema povertà negli slums delle grandi città. Secondo l’Onu sono già un miliardo le persone che vivono in questi moderni ghetti e il numero, con ogni probabilità, raddoppierà nella prossima generazione.

Da Le Monde Diplomatique apprendiamo che “gli autori del rapporto The Challenge of Slums hanno rotto con la tradizionale circospezione dell'Onu per accusare in modo diretto il Fondo monetario internazionale e le sue «condizionalità» della diffusione degli slums in seguito alla decimazione della spesa pubblica e del lavoro «regolare» in tutti i paesi in via di sviluppo.

Uno dei target principali presi di mira dai programmi di austerità dell'Fmi è la sanità pubblica urbana dei grandi paesi del terzo mondo. In Zaire e Ghana, ad esempio, l'«aggiustamento strutturale» ha significato il licenziamento di decine di migliaia di medici e lavoratori della sanità pubblica. Allo stesso modo, in Kenya e Zimbabwe, l'implementazione delle richieste dell'Fmi ha portato a pesanti tagli dell'assistenza sanitaria.

Grazie al neoliberismo globale, inoltre, il monitoraggio delle malattie e i provvedimenti in caso di epidemie sono più fiacchi proprio laddove sarebbero più importanti: nei mega-slums dell'Asia e dell'Africa. È lì che il focolaio dell'H5N1 potrebbe trasformarsi in una terribile pioggia di fuoco biologica.

Una volta scatenato, esso non colpirebbe solo i poveri. Qualora in Asia si arrivasse alla mortalità di massa, la nuova pandemia si diffonderebbe inesorabilmente nel Nord America e in Europa e scavalcherebbe senza difficoltà i muri delle comunità recintate e delle altre roccaforti del privilegio.

Qui, naturalmente, nasce il problema. In passato i paesi ricchi, con poche eccezioni, hanno mostrato la più assoluta indifferenza verso il mostruoso tributo di vite umane dovuto all'Aids in Africa, o verso i due milioni di bambini poveri reclamati annualmente dalla malaria. L'H5N1 potrebbe essere la nostra ricompensa inattesa”.

 

In conclusione non si può che osservare come, ogni qual volta si esamina qualche problema relativo alla sanità, ci si trova di fronte ad un insieme di situazioni che investono anche aspetti di tipo economico e come la salute dei cittadini sia sempre occasione di speculazioni economiche da parte delle multinazionali del farmaco. E anche che i problemi sanitari colpiscono e penalizzano prima di tutto in base al censo: i poveri e gli emarginati rimangono le persone più a rischio di malattia o di pagare le conseguenze maggiori. Ma è bene ricordarsi che in un mondo globalizzato nessuno è al sicuro.